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LA FINE DEL REGNO. IL NOSTRO.

Elisabetta II ci ha lasciato. La prima cosa che ci viene in mente è che questo è il momento del cordoglio, della vicinanza con la sua famiglia e i suoi amici. Poi ci viene in mente che siamo sempre stati abbastanza tiepidi con i nobili, le teste coronate, i loro amori, i loro figli, i pettegolezzi e tutto il circo che viene generato da tabloid e riviste di gossip e dagli idioti che seguono queste cose. Tuttavia, non possiamo dimenticare che da quando siamo nati Betty è sempre stata con noi. Abbiamo perso papi, sovrani (altri), capi di stato, tiranni, celebrità, talenti ma lei ci è sempre sembrata solida e invulnerabile.

Elisabetta c’è sempre stata, dicevo. E’ passata attraverso due secoli e due millenni. Ha visto guerre, miserie e scandali. Ha visto dissolversi l’Impero e assurgere al ruolo di grande potenza l’America, sua ex colonia. Li ha visti provare a governare il mondo in modo molto più maldestro di quanto avevano fatto i Britannici. Li ha visti giocare come bambini al Grande Gioco, gonfiandosi il petto come gli orango ma senza quel distacco, quel pragmatismo. Ha visto il suo Paese diventare alleato degli U.S.A., il primo e più fedele alleato. Ha visto la Partizione tra India e Pakistan che dopo la fine del colonialismo inglese, ha condannato i due paesi a guerra e odio  permanenti. Ha dovuto subire la freddezza dei francesi quando il Regno Unito (nel 1956) aveva dovuto incassare il veto che gli impediva di entrare nell’allora Comunità Economica Europea, nonostante il debito impagabile che questi avevano con gli inglesi per il loro sacrificio in guerra. Ha visto poi il suo popolo decidere di sfilarsi dall’Unione Europea, che non l’ha presa bene. Chi la fa, l’aspetti, no? Ha regnato sul popolo che ha inventato la finanza e che ha la piazza finanziaria più importante del mondo. Lilibeth ha sempre saputo che la democrazia, i parlamenti di cui tanto si gloriano altri, sono un’invenzione britannica e che, la monarchia li ha prima permessi e poi sostenuti. Considerati i diritti di cui godono i sudditi della Corona, c’è da chiedersi se non si sia più sudditi noi che dovremmo essere tecnicamente cittadini.

Ha visto accadere la più grande tragedia nella storia dell’umanità. Ha visto il suo popolo sacrificarsi e resistere per rivendicare il proprio diritto a esistere e, anche, per salvare l’Europa. Li ha visti cadere e rialzarsi. Ha visto dissolversi l’Impero e lo status di grande potenza, eppure ricostruire la nazione e un nuovo modo di vivere. Ha visto la leggerezza della Swinging London. Ha visto tre donne assurgere alla più alta carica dello Stato.

Elisabetta ha vissuto i primi fenomeni della musica popular. La grande isola senza musica diventa la più grande fucina di fenomeni, sperimentazione e artisti. Negli anni Settanta è il posto dove nascono le tendenze che ancora condizionano l’unica arte universale. Elisabetta ha visto ritirare da parte di beceri ben pensanti Never Mind The Bollocks dai negozi di dischi e poi l’ha visto tornarci per via di una sentenza di un giudice che, pur disprezzando i Sex Pistols, rivendicava il loro diritto ad esprimersi. Li ha anche sentiti suonare da una chiatta sul Tamigi mentre festeggiava il suo Giubileo e loro provocatoriamente eseguivano il loro personale inno “God Save the Queen”. Elisabetta ha cominciato ad assegnare onorificenze e parie agli artisti del Regno Unito. Ha anche chiesto a Clapton da quanto tempo suonasse la chitarra, non avendo idea di chi fosse.

Qualcuno ha detto che con lei finisce il Novecento. Io non credo. Credo che il Novecento stia proseguendo. Ancora (in Italia ne abbiamo un grande esempio: in questa campagna elettorale, nessuno contrasta gli avversari spiegando come cercherà di mitigare gli effetti della tempesta finanziaria/energetica che si prepara ma lo fa discutendo di quanto questi siano comunisti o fascisti con grande soddisfazione  di quelli che stanno affilando i coltelli pronti a fare un’altra bella operazione di macelleria sociale e, con noi, nella parte dei bovini) imperano le grandi vecchie chimere ideologiche, ancora ci si ammazza su logiche geopolitiche risalenti al XIX Secolo e, infine, ancora non abbiamo capito che per salvarci dobbiamo fare una pausa. Quello che nel Novecento è successo continua a succedere. Tutto quello che nel Novecento è stato pensato, lo pensiamo ancora o, quantomeno, fa parte di categorie che vengono percepite come attuali anche se chiaramente inutili.

Elizabeth II è stato un personaggio centrale della nostra storia. Non c’è alcun dubbio. Ma la storia continuerà a succedere finché non ci impegneremo tutti insieme per il progresso quello vero. Quello sociale, umano e artistico. Quello che attiene a rivoluzionare radicalmente il mondo: basta con l’obsolescenza programmata dei prodotti e dell’usa e getta, basta con questa orgia tecnologica, basta con la logica che dobbiamo vivere mille anni e performare per far prosperare le case farmaceutiche e per essere produttivi come bestiame, basta con le logiche da giocatori stupidi di Risiko di governanti che dovrebbero farsi curare e non governare i popoli, basta con gli affari con chi ha le mani lorde del sangue della gente (spesso la sua gente) e basta con questo modello di sviluppo non sostenibile, non più a nessun livello.

Riposa in pace, Betty. Noi staremo qui ancora un po’ ricordando una bella frase di Neil Campbell: “… Presente e Futuro non esistono. Esiste solo un Passato che continua ad accadere.”

Di Paolo Pelizza

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Piccolo Teatro: Chi ha paura di Virginia Woolf?

Antonio Latella torna al Piccolo con Chi ha paura di Virgina Woolf? 

Antonio Latella torna dirige un cast straordinario nel capolavoro di Edward Albee.
«Non posso non partire dal titolo per affrontare questo testo: per sostituire il lupo della canzoncina “Who’s Afraid of the big bad Wolf?” Albee scomoda Virginia Woolf, una combattente per l’emancipazione femminile, una donna che insegnò alle donne ad uccidere le loro madri, o meglio un’idea di madre, “l’angelo del focolare”. Credo che tanto di tutto questo si trovi nel testo, la Woolf è presente nei due protagonisti che fanno da specchio alla giovane coppia scelta come sacrificio di questo violentissimo e disperato amore, questo: “jeu de massacre”». 

Un testo realistico, potente e visionario, in cui le risate vertiginose divorano e fagocitano i protagonisti. Albee, svelando i meccanismi di un linguaggio ormai vuoto di significato, quasi paradossalmente mostra anche come esso possa trasformarsi in un’arma efferata per attaccare e ridurre a brandelli l’involucro in cui ciascuno di noi nasconde la propria personalità e le proprie debolezze.

Antonio Latella sceglie un «un cast non ovvio, non scontato, un cast che possa spiazzare e aggiungere potenza a quella che spesso viene sintetizzata come una notturna storia di sesso ed alcool. Un cast che avesse già nei corpi degli attori un tradimento all’immaginario, un atto-attore contro il fattore molesto della civiltà, che Albee ha ben conosciuto, come ci sottolinea nella scelta del titolo. Chi ha paura di Virginia Woolf? Se c’è qualcuno alzi la mano».

 

Chi ha paura di Virginia Woolf?
Teatro Strehler dal 15 al 27 marzo

 

 

 

 

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YES, THEY DID IT.

YES, THEY DID IT.

Ricordate quel vecchio adagio? Quello che recitava che ci si può guardare dai nemici ma è meglio chiedere ad entità superiori e, possibilmente, onnipotenti se si tratta di amici? Ecco, non avendolo considerato affidabile mi sono trovato a mal partito.

Sono sulla scala mobile della metropolitana “lilla” (la chiamano così ma in realtà è viola per essere benaugurante per tutti i passeggeri ma, in particolare, per quelli che lavorano nello spettacolo) e guardo in alto verso il cielo terso di una bella giornata milanese di primavera anticipata. Il mio umore è buono (considerato il periodo in generale) anche se, come sempre, uscendo dalla stazione vicina alla scuola dove insegno, devo fare i conti con i due ecomostri che mi si parano davanti altezzosi, orrendi ed inesorabili. Sembrano dirmi: noi siamo qui e tu non puoi farci nulla. Sono le prime cose che vedi mentre sei sulla scala mobile (… so cosa state pensando! Smettetela, non c’è altra soluzione per uscire di là) e ti provocano una discreta  voglia di tritolo di prima mattina. Sono anche disposto a farmene una ragione, oggi. Mentre sono perso in questi pensieri, il mio telefonino vibra ed io, incautamente, rispondo.

E’ un amico. Dopo alcuni secondi di convenevoli, parte  con un “pippone” articolato e fastidioso. Il suo tema è: “ … perché cazzo non hai mai scritto degli Yes?”

Cerco di argomentare … Non è proprio vero … Bla … bla … Nel ciclo di articoli che parlavano delle Generazioni dei decenni della seconda metà del secolo scorso, ne avevo parlato tra i padri del progressive rock insieme a King Crimson, Genesis e Gentle Giant ... bla … bla …

Ammetto onestamente che il maledetto ha ragione! Non mi ci sono mai dedicato. Li ho citati ma non li ho mai celebrati. A mia discolpa, non mi sono mai dedicato nemmeno ai Gentle Giant o ai Genesis! Eppure, sono gruppi di cui ho apprezzato e apprezzo storia e composizioni. Ne parlo con Francesco (Caprini, N.d.R.) che mi snocciola tutta una serie di altri gruppi di cui non ho parlato … andiamo bene!

A questo punto, non posso più esimermi. Gli Yes nascono dall’idea di Chris Squire (basso e cori) e Jon Anderson (voce solista, chitarra, arpa e cori) nel 1968. I due si conoscono per caso in un bar grazie alla presentazione del titolare. Così Squire ingaggia come cantante Anderson nel suo gruppo dal nome: Mabel Greer’s Toyshop. I due cominciano a scrivere insieme. Tuttavia, a loro due ed agli altri membri della band, il nome sembra poco memorabile e, comunque, lungo. E’ la formazione delle origini con Bruford alla batteria e l’inserimento di Tony Kaye all’Hammond e tastiere e di Peter Banks alla chitarra solista. E’ quest’ultimo, narra la leggenda, a suggerire il nuovo nome al gruppo: Yes. Semplice e incisivo, oltre ad essere indimenticabile.

Così succede che, pronti via, i ragazzi firmano un contratto con i potentissimi discografici dell’Atlantic e partono con due album: Yes (1969) e Time And A Word (1970). Sono due dischi dove il quintetto mette in mostra delle abilità compositive, di ricerca e un virtuosismo musicale di grande livello. Non hanno però trovato ancora la loro strada, il loro registro e le vendite sperate. Questa cosa non sfugge ai discografici che danno ai ragazzi un aut aut: o il prossimo disco sancirà una loro propria identità (e farà profitti, aggiungerei) oppure sono fuori. La situazione si aggrava quando Peter Banks se ne va. Sembra che non apprezzi le eccessive orchestrazioni propugnate da Kaye e che creda che il Rickenbacker di Squire gli tolga quella parte solista che nel rock la chitarra ha, di solito. Così, in fretta e furia, trovano Steve Howe chitarrista rock con formazione e passione per il jazz. Questo porterà sul palco una Gibson ES 175, non una solid body come era comune, allora.

L’epifania avviene nel 1970. Gli Yes percorrono il solco tracciato dalla Corte del Re Cremisi l’anno prima. Nel 1971 uscirà The Yes Album. La svolta prog è compiuta. L’album è contrassegnato da suite favolistiche e sinfoniche,  liriche, virtuosi solo, esplosioni armoniche e tecnica superiore.

Questi sono gli Yes. Direi, anche questi saranno gli Yes. Tutto questo materiale incredibile, suonato a quel livello delle formazioni del prog, i testi allegorici e quel mondo di idee compositive  e di armonizzazione, cambiano il mondo. la musica non è per tutti … gente, non illudetevi!

Gli Yes cambieranno più volte formazione, dopo questo straordinario e mai dimenticato disco, Kaye lascerà e arriverà Rick Wakeman. Bisogna dire che la loro forza anche cambiando membri, sarà sempre un’amalgama riuscita. Perché gli Yes sono un molteplice esperimento alchemico dove tutto diventa sempre oro con facilità (per loro).

Passeranno i meravigliosi Settanta ma i ragazzi ci regaleranno un’altra perla (anche commercialmente … in un mondo così standardizzato dove tutti fanno la stessa cosa è quasi impossibile credere che dischi così “avanti” anche per oggi potevano essere validissimi anche per il business): nel 1983 esce 90125. Dall’album verranno tratti alcuni singoli di successo.

Ed è proprio così che scopro che il mio amico mi aveva stimolato perché aveva letto che il 3 maggio prossimo uscirà un bel cofanetto della band inglese con nuovo video del brano (famosissimo) Owner Of A Lonely Heart. Il box set in stile flight case conterrà ben 30 dischi e si chiamerà “Union 30 Live”. Wakeman ha definito questa collection: l’evento più importante della storia degli Yes.

Ma la giornata è destinata a peggiorare. Il telefono vibra ancora. E’ un altro amico che mi comunica che lo Spazio Ligera chiuderà per sempre. La causa è da ricercare nelle chiusure coatte a causa dei provvedimenti di contrasto alla pandemia.

La notizia è orribile da tutti i punti di vista.

Dal punto di vista personale, perché consideravo il Ligera un po’ “casa mia”. Ci tornavi magari dopo sei mesi o un anno e ti salutavano come se ti avessero visto il giorno prima. Di solito, Federico mi accoglieva con un “ciao, belva”. Organizzavano qualsiasi evento o iniziativa ed eri sempre coinvolto in un modo o nell’altro. Sempre disponibili a partecipare anche ad altri eventi, anche fuori di là.

Da un punto di vista professionale perché erano sempre permeabili a mie proposte (e di altri) di manifestazioni anche strane o che rischiavano di essere poco partecipate (ma che poi funzionavano grazie alla magia del posto) come, ad esempio, la presentazione di un libro di poesie. Federico e Riccardo poi riuscivano a inventarsi produzioni che coinvolgevano anche gli avventori oltre ad organizzare live di tutto rispetto.

Da un punto di vista sociale: il Ligera era (mi si umidiscono gli occhi ad usare l’imperfetto) posizionato in una periferia “difficile” dove vive un’umanità varia. Il locale era diventato un po’ il fulcro della comunità ma, anche, punto di riferimento per la città tutta. Un esperimento riuscito di accoglienza, di empatia, di comprensione del fatto che tra diversi abbiamo più cose in comune di quelle che ci dividono. Sembra che tuto ciò che sia cultura, aggregazione e fratellanza sia pericoloso per la collettività, ormai. Non si può più credere, per quanto si possa essere ingenui, che sia solo per il virus.

Via Padova, Milano ed anche io saremo più orfani, soli e spaventati senza il Ligera. Decisamente oggi non sarà una buona giornata. Non chiamatemi. Ho gettato il telefono.

di Paolo Pelizza

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ANNO MUSICORUM MMXX parte II di Massimiliano Morelli

   Chi di voi ha avuto la possibilità di leggere la parte prima di questo mio ANNO MUSICORUM MMXX e, sfidando eroicamente la mia disarticolata articolazione, è pure riuscito ad arrivare alla fine dell’articolo, sarà già a conoscenza del fatto che avevo deliberatamente lasciato aperto il sonoro cerchio, nondimeno lasciando intendere che, dato che i dieci lavori (otto LP più uno e un EP) da me citati in quella oltremodo succulenta occasione non rappresentano che una percentuale –per quanto luminosissima– infinitamente piccola del quasi infinito firmamento musicale di questo appena conclusosi 2020, avrei magari, col tempo, riacceso il PC e, cuffie nelle orecchie, ripreso a illuminarvi lungo l’aurale cammino ripartendo, o forse no, dal punto in cui m’ero giocoforza dovuto defilare . . . quel tempo è giunto e veniamo dunque al punto. Il 25 dicembre, un anno dopo la pubblicazione di Jesus Is Born, il gruppo gospel Sunday Service Choir (Los Angeles, California, USA), sotto lo stesso moniker meno Choir, rende più solenni e contemplativi i toni e i colori rilasciando a sorpresa un enigmatico EP –12 minuti circa– dall’ancor più enigmatico titolo Emmanuel (“Dio è con noi” il suo significato secondo la cartella stampa che accompagna l’uscita) e di divina luce –e voce–, opportunamente, quasi quasi si tratta: apparentemente ispirato da musica antica (leggasi: sacra) e latina (!) e interamente composto e prodotto dal ben più famoso se non famigerato nonché spesso redento Kanye Omari West, l’extended play in questione raccoglie cinque nuove rare e rarefatte tracce al limite della rivisitazione in chiave quasi-contemporanea del canto gregoriano e della musica liturgica— cinque tracce tanto eloquenti nei titoli quanto inequivocabili nei modi e nelle intenzioni il cui tema/leitmotiv religioso, spirituale, e forse apocalittico (leggasi: rivelatore) può davvero diventare il modo migliore per salutare a modo e dire addio a un’annata che dei modi e delle intenzioni ivi riportati e qui acclusi, per l’appunto, s’è rivelata pressoché carente se non addirittura scevra. Amen. Rimanendo ancora a Los Angeles ed egualmente liturgici ma invertendo ora le croci, ci accingiamo di converso ad addentrarci nei meandri infernali del sottosuolo californiano e vagare, perduti, per le tenebre più buie, profonde, e profane possibili del panorama musicale odierno: il 28 agosto i Cultus Profano tanto eloquenti e inequivocabili quanto le angeliche voci della funzione domenicale di cui sopra, ma al contrario– pubblicano l’implacabile e meravigliosamente canonico Accursed Possession, la loro pertinentemente appellata second offering— un trionfo in e di altisonanza stilistico-concettuale, tecnica, e scrittura; uscito sotto la gelida egida della Debemur Morti Productions e comprensivo di sette composizioni grondanti acciaio bollente, old school, e magia nera, questo nuovo LP dell’ormai comprovato duo (Strzyga, voci e chitarre; Advorsus, batteria e voci) losangelino riprende con dovute dovizia e devozione la ri-lettura dei principali testi sacri della second wave del black metal di matrice nordeuropea iniziata col debutto discografico ufficiale (Sacramentum Obscurus, 2018) e ne comprende e poi estende il nero messaggio fino a traslarlo, giustappunto, nelle sette offerte –sette sacrifici, sette rituali– che lo compongono e rendono un grimorio di note e di parole più che perfetto sia per l’adorazione del Diavolo (!) che per l’esorcizzazione del diabolico 2020. Horns up, dico io! Ora, se ancora non siete stati asfissiati, tramortiti da tutto l’incenso e da tutto lo zolfo finora sparsi e consumati, è arrivato il momento di dimenticarci per un po’ di acquasantiere e pentacoli e, per mezzo del nostro fedelissimo portale spaziotemporale, cambiare genere, continente, mese e così approdare a Bristol (Inghilterra, Regno Unito) addì 25 settembre: basso e batteria a martello, granitici come il granito, scandiscono una simil-marcia (post-)punk che non suona dissimile da una chiamata alle armi— gli IDLES (tutto maiuscolo) pubblicano Ultra Mono, il loro terzo album, e l’opener, giustamente intitolata War, ci esorta senza perdere battuta a riprendere e indossare giacca di pelle, t-shirt sgualcita, jeans neri stretti, stivali militari ed essere pronti ad assaltare pogando la giungla d’asfalto e cemento mediatico e non dell’anno da poco passato; registrato in Francia nel 2019 e supportato da niente meno di cinque singoli, impegnato ma non impegnativo, il disco si conferma come uno dei migliori del suo tempo e del suo genere (post-punk ad oltranza, Mastro Talbot?) e riconferma in stile, nell’ascolto passivo, tutta l’efficacia della band in qualità di tonico e corroborante per il corpo mentre, in quello attivo, di stimolante per l’intelletto e per lo spirito. Up (post-)punks to arms! Siamo quindi pronti per volare a Edmonton (Alberta, Canada) per un viaggio a ritroso nel tempo ma nel futuro del pop: il 3 aprile il duo futurepop Purity Ring (Megan James, voce e parole; Corin Roddick, musica e produzione) rilascia il meraviglioso, contemporaneamente fluido e compatto, sensualissimo in tutti i sensi WOMB (tutto maiuscolo) e da allora, non inverosimilmente, incubi, sogni, paure, e desideri di molte ragazze alle prese con, per esempio, l’approcciarsi della maturità sessuale –pandemia inclusa, vista la situazione mondiale– potrebbero non essere (stati) più quelli di prima; ora, cosa c’entro io, di fatto, con periodi, preoccupazioni, e aspirazioni d’una giovane donna d’oggi? Tutto, ribadisco e grido, se a cantarne l’esperienza è la voce di Megan James! Scritto e prodotto per intero dalla band stessa, questo terzo e più maturo lavoro ci accompagna lungo un possibile viaggio, sia nell’accezione letterale che in quella metaforica, al centro del grembo (womb in inglese) delle protagoniste delle varie canzoni— un viaggio tematico talmente intriso di viscere, umori e liquidi corporei, organi, ossa, e pelle che non sfigurerebbe se incorporato nel concept di un album d’una band death metal tra le più esplicite; tanto eteree quanto a volte funeree, leggere come l’aria e ponderose come l’oceano, poetiche ma anche crude(li), le dieci canzoni di questo dei Purity Ring, per concludere, varcano le soglie dell’eccellenza nell’incastro, strato dopo strato, tra voce naturale e musica artificiale, tra parola e immagine in un susseguirsi di impressioni il cui costante passaggio sembra essere un rito— un rito di passaggio, e possiamo quindi passare il testimone al prossimo disco tornando negli States in pieno autunno. Avevo poco fa scritto viscere e death metal, giusto? Rochester (New York, USA), 23 Ottobre: gli Undeath esordiscono col loro primo full-length Lesions Of A Different Kind e le lesioni riportate dall’ascoltatore potranno pure appartenere, come quelle nel titolo, a un probabile differente tipo, ma tutta la consolidata solidità e tutta la consistente insistenza del genere sono a maggior ragione presenti e garantite; comprendente dieci tracce relativamente brevi ma decisamente strutturate, se a un primo distratto ascolto il disco, ingannevole, può suonare come il tributo di alcuni compagni di scuola, raggruppatisi per l’occasione in una band, ai loro soliti stranoti musicisti preferiti –c’è tutta la vecchia, ehm, scuola e non solo–, servirà davvero poco all’orecchio meno stanco –meno annoiato, meno corrotto da sé stesso e dal tempo– per coglierne, dalla (de)composizione ed esecuzione delle singole canzoni fino alla produzione del lavoro tutto, quelle peculiarità e pregevolezze, passioni ed energie, credenziali e referenzialità che ne fanno un capolavoro di debutto— e giova davvero alla band, insisto, che i Glen Benton Trey Azagthoth del passato sembrino semidei antropomorfi scesi sui nostri palchi da chissà quale ancestrale tempio mentre i giovani membri degli Undeath moderni idolatri con lo smartphone in mano che da sotto quei palchi scattano foto e, urlando a squarciagola, inneggiano ai loro idoli. Devoti, non derivativi, freschi, talentuosi, contemporanei. Ci siamo— nostalgia del futuro o futura nostalgia? Marilyn Manson, in qualità di big, nel precedente AM MMXX ci aveva dato forza e coraggio e ora, a forza di coraggio, siamo pronti a rompere le catene e oltrepassare, più che abusivamente, il confine. Certo, fare uscire –il 27 marzo, per esser precisi– in un anno di terrore e reclusione un disco disco-pop con una tracklist più che trasparente e singoli che da basso a batteria passando per chitarre e tastiere trasudano contatto fisico, passione, (mal d’)amore, e sesso suona, e in tutti i sensi, quasi come un ossimoro pop, per l’appunto; ma, in difesa della femmina alfa (No matter what you do, I'm gonna get it without ya/I know you aint used to a female alpha, dal ritornello della canzone che dà il nome al long playing) che lo ha partorito, Future Nostalgia era stato concepito, scritto, e registrato ben prima della crisi mondiale che è andata a colpirne l’anno d’uscita. Disco –dove disco può e deve essere letto dance, electro, synth, funk– nel cuore e nell’anima e pop –quello grosso, che rimanda alle Nostre Signore e alle Lady Gaga del globo globalizzato– nel corpo e nella mente, il secondo album di Dua Lipa (Londra, Inghilterra, Regno Unito) reinterpreta e riscrive le regole del gioco raccogliendo undici inediti –undici hit mondiali– così ben scritti, arrangiati, e prodotti da far vacillare, se non crollare, tutta la mascolinità –o presunta tale– auditiva dei vari bellimbusti esperti tutto timpani pompati e cravatta aurale che ancora pensano d’aver ascoltato e capito tutto; del resto, basta ascoltarlo per sentire la fallacia delle proprie presunzioni, Future Nostalgia essendo, oltretutto, una legittima e riuscita dichiarazione d’intenti in un odierno mercato (leggasi: l’industra dello spettacolo, quella che contempla numeri e denari come intelligenza, lungimiranza, presenza, talento, capacità imprenditoriale) di stenti artistici e incertezze discografiche— un manifesto di rivalsa e d’affermazione contemporaneo la cui voce . . . appunto, che voce! Prim’ancora dei soldi (investiti e gudagnati, si capisce), prim’ancora del successo (conseguito e mantenuto), prim’ancora dello status di (nuova) icona –diva– del pop; ancora prima e alla base di tutto questo ci sono solamente due cose e tanto inscindibili quanto imprescindibili: voce e canzone. In Dua Lipa, si sappia, abbiamo entrambe e nel migliore dei mo(n)di pop possibili. Faremo finalmente calare il sipario sull’ANNO MUSICORUM MMXX, se del mio stile non siete plausibilmente già sazi o dallo stesso stati straziati, in grande stile coi Shabazz Palaces (Seattle, Washington, USA) per la scoperta dei quali, circa dieci anni fa, ringrazierò sempre e per sempre la mia celebrity crush (il mio, nemmeno a dirlo, idolo Julian Casablancas) e che il 17 aprile rilasciano The Don of Diamond Dreams, il loro quinto LP di cui non scriverò assolutamente nulla –ma che andrete a cercare subito e ascolterete mentre rileggerete l’articolo da capo– andando così a chiudere il cerchio senza concludere il discOrso (è l’ultima, suvvia) e aprendomi, cuore e orecchi com’è d’uopo in tali istanze, a tutte le vostre numerose e dovute raccomandazioni e rimostranze— stavolta, sì, ho veramente esagerato.

Perdonami due volte, e perdonami davvero, Maestro Pelizza!

Massimiliano Morelli

Milano, 19 01 2021

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