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VIDEOINTERVISTA la storia di ROCK TARGATO ITALIA - Periodo 1993-1996 (SECONDA PARTE)

 

vedi l'intervista 

https://www.youtube.com/watch?v=L87zyfcKsrQ

 

Prosegue l'intervista, una testimonianza importante storica, tra due personalità del mondo rock italiano. Il periodo analizzato va dal 1993 al 1996: la sinistra italiana, le fanzine, il Mei e le multinazionali, il rock italiano verso nuovi orizzonti.

Intervista di Roberto Bonfanti a Francesco Caprini. Post Produzione di Andrea Ettore Di Giovanni

I Litfiba sono una realtà ormai affermata, le major iniziano a interessarsi alle nuove contaminazioni aprendo etichette dedicate (si veda per esempio la BlackOut), le radio alternative e le riviste di settore iniziano a dare sempre maggiore spazio alle band nostrane e anche Videomusic capisce che il fermento giovanile non è da sottovalutare dando una spinta importantissima all’intero movimento...

 

blog www.rocktargatoitalia.it

 

 

 

 

 

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12 ALBUM PER L’APOCALISSE, II PARTE.

12 ALBUM PER L’APOCALISSE

II PARTE.

“Questa è la fine/

la fine del mondo/

per cinquemila anni/

devi sicuramente averlo sentito/

Nostradamus, Gesù, Buddah e io/

Abbiamo detto che stava per arrivare/

Ora aspetta e guarda.”

Bob Geldof

 

Ve ne siete già fatti una ragione? No? Allora questa “seconda parte” è per voi! Per voi improvvisati sceriffi del “restate a casa”, per voi che non avete capito che dovete rispettare le regole, non farle rispettare, per voi che insultate chi passa sotto il balcone, per voi che cantate e suonate sul vostro terrazzo e sarebbe opportuno che scegliate meglio il repertorio, per voi che stropicciate quotidianamente Conte (Paolo, N.d.R.) e l’inno nazionale, per voi che rimarrete impressi nella nostra memoria incorniciati dal rettangolo della vostra finestra mentre massacrate Va Pensiero, per voi che avete esposto la bandiera tricolore ma era tutta tarmata perché in una scatola dai mondiali di calcio dell’82, per voi che il pane si compra tutti i giorni, per voi che avete scoperto che si può litigare per portare giù l’immondizia, per voi che ne avete approfittato per indagare e avete scoperto che quelle cose strane, rettangolari che avete sugli scaffali sono libri e non è spiacevole aprirli e leggerli, per voi che adesso siete grati al vostro cane e non il contrario, per voi avvocati divorzisti che attendete il tempo delle messi, per voi patrioti confusi dell’ultima ora, per voi neo-fulminati sulla via di Damasco, per voi fulminati e basta … questo pezzo è per voi!!!!

Continuiamo con gli ultimi sei album (non sono certo del numero …) per godersi pienamente l’Apocalisse! Godeteveli che sono gli ultimissimi! Ok … Sto mentendo!

#1. Rhymes and Reasons di John Denver. Nella vecchia Nashville, se chiedi cos’è il country, ti rispondono così: tre corde e la verità. Questo per la (spesso solo apparente) semplicità di stesure e suoni e per i testi che parlano di cose vere, quotidiane. Ma anche delle ferite, delle paure, delle perdite che fanno parte delle nostre vite. La title track dell’album recita: <<[…] la paura che è con te, non sembra finire mai […]>>. Come la nostra. Paura che raramente abbiamo provato su scala globale. L’album esce nell’ottobre del ’69 in piena Guerra Fredda e contiene capolavori del “genere” come la meravigliosa Leaving on a Jet Plane oltre a Rhymes and Reasons (espressione inglese che indica che non si vede il motivo di qualcosa).

#2. Back in Black degli AC/DC. E’ il secondo album più venduto di tutti i tempi con 50 milioni di copie. Rimase nella Billboard 200 per quasi 390 settimane e, secondo l’autorevole magazine Rolling Stone, si trova al n. 77 nella speciale classifica dei cinquecento migliori album di tutti i tempi. Realizzato dopo la morte del cantante Bon Scott a Londra, il disco esce con una copertina completamente nera (scelta inizialmente osteggiata dal discografico a cui concessero il grigio per “bordare” il nome del gruppo sulla cover) per il lutto occorso alla band. Dopo un periodo di grande indecisione sull’opportunità di continuare o meno, il gruppo arruola Brian Johnson come nuovo vocalist che curerà anche la scrittura di testi e melodie insieme ai fratelli Young. Il tema ci si chiarisce appena la puntina sfiora il vinile: l’album inizia con il suono di campane a morto. Back in Black riesce a contenere brani del calibro di Hells Bells, Shoot to Thrill, What Do You Do for Money Honey, You Shook Me (All Night Long), Rock ‘n Roll Ain’t Noise Pollution oltre alla title track. In pratica, il cinquanta per cento dei singoli di successo planetario della compagine anglo-australiana e brani che conoscono anche quelli meno interessati al genere.

#3. Splendor and Misery dei Clipping. Il disco che da me non ti aspetti… Consigliato dal mio amico Sandro, Splendor and Misery è un album hip hop ma non solo questo. Anzi, forse lo è solo incidentalmente. Andando in ordine, il gruppo di L.A. è composto dai due produttori W. Hutton e J. Snipes e dal rapper Daveed Diggs, e prende il nome da un effetto distorsivo del suono che si produce quando un amplificatore viene “forzato” a lavorare oltre la propria capacità e va in saturazione. L’album è un concept e parla di un’odissea spaziale. Suona molto diverso dagli album del genere, con abbondanti e, devo ammettere, molto interessanti escursioni ai confini di industrial, musica cosmica, space rock ed elettronica (molto curata) ma, certamente, non ho colto qualche altra influenza che pure ci sarà. Di sicuro impatto, l’utilizzo degli effetti sonori. Inutile dirvi che non si tratta di un’opera che ha il suo punto di forza nella facilità di ascolto, tuttavia l’esplorazione è straordinariamente suggestiva e credibile nel raccontare la deriva spaziale. Arriva davvero là dove nessun discepolo dell’hip hop è mai giunto prima, una nuova frontiera. La traccia che ho preferito è A Better Place. Sarà per la necessità di acquisire una qualche speranza? Speriamo di risvegliarci in un posto che sia autenticamente migliore, alla fine della “peste”, anche se temo che ci si dovrà lavorare e molto.

#4. Downward Spiral dei Nine Inch Nails. Al posto 201 della classifica già citata di Rolling Stone, per rimanere nel robotico-futuristico, vi propongo il capolavoro assoluto di Trent Razor, nel quale esplodono la sua ossessiva ricerca di suoni e la sua visione del mondo nietzschiana (e nichilista). Tra i tre album più significativi degli Anni Novanta (con Nevermind e Superunknown per noi), non solo per la sua importanza formale, Razor vi tratta temi come quello della morte di Dio, la malattia mentale, l’impotenza dell’individuo di fronte al sistema e la fragilità umana. Un concept di straordinaria potenza e originalità adatto a tempi come questi nel sottolineare il racconto della nostra impotenza.

#5. Darkness on the Edge of Town di Bruce Springsteen. Dopo il pirotecnico Born to Run, il Boss ferma la sua corsa e torna al pensiero. E’ il 1978 e l’album (il mio preferito del menestrello del Jersey) è intriso di profonde riflessioni, disperazione e atmosfere scure. Uno Springsteen di pancia che si interroga sulla vita e sul sogno ma, soprattutto, sulla vita dentro al Grande Sogno, sulle aspirazioni crollate, sulle illusioni svelate alla fine dell’inganno. Musicalmente è un album scarno ed essenziale, privo della densità sonora del precedente e le liriche sono meno evocative, più dirette e no frills. La mia traccia preferita è Badlands. Adatto a tutti, lo consiglio agli amanti del jogging ora costretti all’inattività.

#6. Lament di… E qui abbiamo un titolo per due band (lo so, sono scaltro!). Lo stesso titolo è stato usato dai londinesi Ultravox ed è uno dei due loro migliori lavori (insieme a Quartet, prodotto dal saggio George Martin) e dai tedeschi Einsturzende Neubaten (scusate la mancanza delle necessarie dieresi ma non riesco …). Molto diversi i generi e tempi. Il primo è un disco del 1984, in cui il gruppo dandy si dedicava ad un’elettronica dolente, fatta di nostalgici romanticismi e di un frullato ben riuscito tra Kraftwerk, glam rock (Bowie e Bolan, soprattutto) ed elettronica alla Eno. Sono dentro la new wave degli Ottanta della rinnovata ostilità tra superpotenze nucleari dopo il disgelo, sono gli Ottanta dei synth, dell’edonismo reaganiano e della musica prodotta con la dottrina Warner. Sono gli Ottanta dei videoclip musicali (l’inizio della fine) e Lament è sicuramente un’opera del suo tempo. Pervaso di malinconie e sturm und drang contemporanei all’epoca, è l’album che ti aspetti ma decisamente raffinato per armonizzazioni e per l’alchimia riuscita tra art rock, new romantic e pop. Decisamente più facile dei precedenti e con meno esperimenti “berlinesi”, è un misto di struggenti melodie su tessiture elettroniche. Brani migliori del disco: la title track e la famosissima Dancing with Tears in my Eyes dal refrain indimenticabile, che parla dell’ultimo ballo tra amanti prima che un’esplosione nucleare ponga fine alla loro vita e alla loro storia. L’altro (udite, udite voi che considerate che io viva solo nel passato) è del 2014 ed è ispirato alla Prima Guerra Mondiale, di cui all’uscita si celebrava il centenario. Ho visto a Villa Arconati il recital live della band tedesca: meraviglioso e denso di suggestioni con video, musica e recitazione. Impressionanti le registrazioni recuperate dagli archivi dei prigionieri di guerra chiusi nei campi d’internamento e inserite nel disco. Le registrazioni sono state unite alle composizioni con forme tipicamente rinascimentali, di cui una chiamata Lamento (da cui il titolo). Gli Einsturzende Neubaten si sono formati a Berlino Ovest nel 1980 e costituiscono una delle realtà più importanti della musica concreta, del rumorismo, dell’ industrial e del rock sperimentale.

Godetevi con l’ascolto di country, folk, esperimenti elettronici e rock, il protrarsi degli arresti domiciliari (sono certo di avervi fornito una selezione eterogenea e di qualità). Cercate di essere positivi e consapevoli ma, soprattutto, (come dice Stanislaw J. Lec) non aspettatevi troppo dalla fine del mondo.

di Paolo Pelizza

© 2020 Rock targato Italia

P.S. Mi segnalano un refuso … mi correggo colpevolmente in ritardo. Nel pezzo de Le Visioni di Paolo intitolato <<Cinquanta anni fa, tra cinquant’anni, ovvero come la storia ha qualche volta il senso dell’umorismo>>, riguardo a Van Morrison, scrivo <<Il cantautore di Belstaff>>… Ora, lungi da me voler fare pubblicità gratuita a una marca di ottimi capispalla, l’errore è dovuto a una correzione automatica bizzarra (qualcuno usandolo deve aver inserito la parola nel dizionario interno per evitare che gliela correggesse con il nome della capitale dell’Irlanda del Nord). Ovviamente Van Morrison è di Belfast, nell’Ulster, Regno Unito. Io e i miei correttori di bozze ci scusiamo per la disattenzione.

P.P.S. Auguri di pronta e completa guarigione a Till Lindemann, frontman dei mitici Rammstein ricoverato in ospedale in terapia intensiva da un po’. Apprendiamo con sollievo che non è in pericolo di vita.

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DODICI ALBUM PER L’APOCALISSE I PARTE.

DODICI ALBUM PER L’APOCALISSE

I PARTE.

“Quello che il bruco chiama fine del mondo,

il resto del mondo chiama farfalla.”

Lao Tze

Amici Visionari, ben trovati. Ho provato a cominciare con una citazione di speranza (per citare Robert Plant al Garden) anche se, mentre scrivo queste righe, mi trovo a considerare alcuni fatti che proprio non mi fanno pensare ad un futuro così roseo. Innanzitutto, la comprovata consapevolezza che il mondo scientifico sul Covid 19 si è diviso in due correnti principali, un po’ come la discografia negli anni Settanta. Abbiamo gli scienziati mainstream e quelli underground: quelli che lavorano per le major e gli altri per le etichette indie.

Premettendo che tra nessuno (neanche tra quelli mainstream!!!) di questi c’è accordo sul tema del momento, ci piacerebbe che, almeno, non si continuasse a gettare addosso notizie, speranze, illusioni e disillusioni sul pubblico che, al contrario, è bombardato da bollettini, decreti, ordinanze e modelli per autodichiarazione minuto per minuto. Da essere umano chiedo sommessamente che si allenti la pressione mediatica, che i decreti li facciano uscire in orari più potabili e che ci sia una linea di chiarezza ma, soprattutto, che non si invitino più virologi, infettivologi, microbiologi, etc. nelle trasmissioni televisive a dire tutto e il contrario di tutto (tra l’altro, con abbondanza di “leccate” agli stessi).

Ci hanno detto e indotto a pensare che, alla fine di questa triste vicenda planetaria, le cose cambieranno. Eh sì, perché dovremmo riflettere sul mondo, sui nostri sistemi e porre dei correttivi … Insomma, niente sarà come prima e le cose andranno meglio.

Ora, consentitemi di non essere molto fiducioso! Non si sta usando come scusa l’inosservanza delle regole per potersi dotare legalmente di un’applicazione che ci tracci tutti e che permetta (ulteriormente) di indagare sulle nostre vite, sui nostri movimenti, le nostre abitudini? Pensate che eravamo già oltre il grande fratello di Orwell ….

Di più, si chiede ai gestori di social media (che come sapete non mi sono particolarmente simpatici) di denunciare chiunque metta in dubbio la verità scientifica ovvero il verbo di (non meglio dichiarate) fonti scientifiche accreditate. A parte il metodo e il linguaggio, ma quale verità scientifica? Le abbiamo sentite tutte da due mesi a questa parte! Non è che la verità scientifica di cui parlano è quella diffusa dai governi e dai loro gabinetti di esperti? Sul concetto stesso di “verità” non troverete nessuno scienziato (degno di questo nome) che non troverebbe la questione mal posta e pericolosa. Non c’è bisogno che sia io a dirvi a cosa porta questo tipo di attitudine. Mi sembra che si stia facendo di tutto per evocare spettri che pensavamo di aver eliminato con un prezzo elevatissimo, come Manfred maldestri. Infatti, un conto è far osservare le regole che ci danno (lo facciamo!), un conto è non poter più esprimere un punto di vista o un’opinione, fosse anche la più stupida e priva di fondamento. Attenzione a smettere di vigilare ed indignarsi su questo tema. Se la pelle fosse stata più importante della libertà, probabilmente, nella storia degli uomini non ci sarebbe mai stata una rivoluzione.

Per farci un’idea piena di fondamenti e fondamentale per la sopravvivenza dentro all’Apocalisse, eccovi una selezione dei primi dodici album (prevediamo delle sorprese nelle prossime settimane!) per restare vivi e mentalmente funzionanti. Ecco i sei della settimana.

#1. Five Leaves Left di Nick Drake. Cinque foglie rimaste su un albero nella campagna inglese. Quella campagna autunnale dove le sagome delle piante costituiscono l’elemento definito del chiaroscuro nel bianco rarefatto della foschia. Come noi, quelle foglie precarie sono rimaste sul loro ramo in attesa che venga il loro turno di cadere. E’ quella campagna che vide la nascita di Nick. Questo è il primo album di tre. Poche vendite, scarso successo in vita, Drake verrà scoperto postumo. Il disco è grande e segnerà almeno una generazione di ascoltatori e musicisti per il suo interprete sobrio ed essenziale nel canto, per i preziosi arpeggi di chitarra e per il romanticismo malinconico e struggente di chi è vittima della sua arte. Nick scomparirà a 26 anni, in silenzio dentro al chiasso del successo di The Who e Led Zeppelin. Se ne andrà senza nemmeno entrare nel triste Club dei Ventisette, anche qui in controtendenza. Se ne andrà per un’overdose di farmaci. Non si capì mai se fosse stato suicidio (così venne ufficialmente definito: Nick soffriva di depressione) o errore nel dosaggio. Ci sarà chi mi dirà che preferisce Pink Moon (il terzo album, universalmente riconosciuto come il suo miglior lavoro) ma Five Leaves Left ha una tale carica di fresca precarietà, di sottile sofferenza, di attesa di destini ineluttabili da renderlo così “vivo” come l’immagine, evocata dal titolo, delle ultime cinque cartine nel pacchetto delle Rizla.

#2. Countdwon to Exinction dei Megadeth. E’ il quinto lavoro in studio per la band trash metal (etichetta che trovo riduttiva, personalmente) americana. Esce nell’estate del 1992 ed è una miscela riuscita tra gli stilemi armonici del genere e la stesura di melodie più strutturate ed orecchiabili. Il titolo evoca i tempi che stiamo vivendo come conto alla rovescia per l’estinzione. Non mi riferisco al virus di moda, oggi. Ma a tutta quella letteratura di azioni disattese e sottovalutate sulla salvaguardia del nostro pianeta, sui cambiamenti climatici, sulla conservazione della bio-diversità … Tornando in tema, il disco ebbe più successo presso un pubblico più eterogeneo che tra i fans della band che lo vogliono tra quelli dell’ineluttabile declino verso logiche più commerciali, forse perché mancante del ricorso sistematico a quelle chitarre monstre che i Megadeth hanno tra i loro “registri” e che, qualche volta, virano verso una noiosa evoluzione manieristica. Questo album mi è stato suggerito dal mio amico Davide dei Messer DaVil e lo inserisco volentieri.

#3. Close to the Edge degli Yes. Questo è suggerito da Giorgio. Siamo al cospetto di una delle più talentuose band del progressive rock e a uno degli album più importanti del genere oltre che del gruppo. Molti di voi farebbero un’altra classifica … ma questa non è una classifica! E’ un elenco di generi primari per sopravvissuti! Questo disco è una continua sorpresa nel susseguirsi dei brani con un’infinita citazione di generi e tecniche. Il basso di Squire segue la tradizione dei bassi “melodici” (tra tutti Beatles e The Who) liberando la chitarra di Howe a spaziare ed a portarci in viaggio dentro ad un rock marginale, fatto più di escursioni classiche sinfoniche, nel jazz e nel folk. La title track è una suite di diciotto minuti, tanto per gradire, ed è ispirata al romanzo Siddharta di Hesse. Il “baratro” esistenziale degli Yes è sicuramente molto lontano dal nostro ma il titolo e la grandezza dell’album ci stanno alla grande!

#4. Wish You Were Here dei Pink Floyd. Bacchettato da molti per non aver inserito questi ragazzacci britannici nella precedente playlist, me li sono conservati per la composizione della lista degli album per la fine del mondo. Dopo il successo epocale di Dark Side of the Moon, il gruppo si ritrova in preda a sé stesso. Troppi pochi stimoli dopo un’esperienza come quella, troppo tempo per pensare, perché sentimenti contrastanti facciano la loro comparsa accompagnati da quel sottile, freddo senso di colpa che da tempo era con loro. A volte rimanendo sullo sfondo, a volte risalendo il flusso delle coscienze. Così nasce Wish You Were Here, altro album capolavoro del gruppo. E’ per Syd Barrett, fondatore della band, malato di mente, tossico e genio, il senso di colpa. La consapevolezza di averlo abbandonato, di non aver fatto abbastanza sono i temi del disco: assenza, disagio mentale ma, anche, quello di un sotterraneo, malcelato cinismo dell’industria musicale. Attualmente, siamo tutti lontani per decreto e credo che tutti noi si stia esprimendo lo stesso augurio del titolo.

#5. The Wall dei Pink Floyd. Quarto ed ultimo capolavoro della gestione di Roger Waters dopo Dark Side of the Moon, Wish You Were Here e Animals, chiude gli anni Settanta e quella straordinaria stagione nella produzione musicale. Autobiografico per Waters, il concept racconta la storia di una rockstar chiamata Pink che attraverso una serie di episodi traumatici e di disagio psicologico arriva a costruirsi un muro con gli altri. La scomparsa del padre durante la Guerra (quello di Waters morì durante la battaglia di Cassino e lì è sepolto), gli insegnanti autoritari, la madre che aveva come unico oggetto d’amore il figlio e i tradimenti della moglie sono i mattoni del muro. I nostri muri sono reali e di mattoni solidi dentro agli arresti domiciliari nei quali ci hanno messo. Speriamo che questa situazioni duri il meno possibile e che non sia la scusa per costruirne altri, di muri.

#6. Darwin del Banco di Mutuo Soccorso. Secondo noi, il concept più importante del prog italiano e uno dei più significativi del prog tutto. Prodotto dall’etichetta di Emerson, Lake and Palmer (Manticore), il disco è una esplorazione per suoni, parole ed immagini della nascita e dello sviluppo delle forme di vita sulla Terra in chiave evoluzionistica (ci mancherebbe!) ma priva di dotte e barbose dialettiche di tipo scientifico/filosofico. Le liriche sono, in realtà, personali ed intime. Le tastiere e la chitarra (quella di Marcello Todaro) ci guidano attraverso fughe dal sapore “bachiano”, intermezzi jazz e ouverture tipiche del genere. Ma il paesaggio sonoro è ricco e scarsamente applicabile a quanto conosciuto e apprezzato nella Grande Isola, regalando all’ascoltatore un senso di fresco e di nuovo: direi vagamente mediterraneo. Un album che non ha avuto paura del tempo: suona nuovo dal 1972.

Così finisce la prima parte tra evoluzioni, muri, malinconie e conti alla rovescia. Per la seconda dovrete aspettare un’altra settimana e, come sapete, accetto consigli e suggerimenti. Intanto, vi invito a rispettare le regole ma, soprattutto, a non smettere mai di vigilare e stigmatizzare qualsiasi tentativo di annullare le libertà e di limitare i diritti conquistati a così caro prezzo e previsti dalla nostra Carta … mentre scrivo corre il triste anniversario delle Fosse Ardeatine, cerchiamo di raccogliere il testimone dei martiri e degli incalcolabili sacrifici fatti.

di Paolo Pelizza

© 2020 Rock targato Italia

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PLAYLIST DELL’APOCALISSE, SIDE A.

PLAYLIST DELL’APOCALISSE,

SIDE A.

Amici Visionari, pionieri dell’Armageddon, esploratori del Giudizio Finale, rieccoci! Il tentativo che, da parte nostra, proviamo a fare è quello di farvi sorridere, di sdrammatizzare, di allontanare la paura. Così continueremo con le Pillole ma volevamo concederci due momenti per raccomandarvi la compilation dei brani più idonei per una corretta colonna sonora della fine del mondo.

Nell’ideale vinile delle “Visioni”, sulla facciata A abbiamo messo solo pezzi italiani per chi, pregno di senso di appartenenza, vuole resistere con la musica di casa nostra. Il lato B sarà  invece dedicato a brani internazionali. Entriamo nel vivo.

#Trk. 1: Fai Rumore di Diodato , perché con queste nostre città sempre così operose e urlanti, ridotte a silenti piattaforme semi-deserte, se qualcuno facesse rumore, ci farebbe piacere. Il silenzio è troppo e questa è una supplica!

#Trk. 2: A che ora è la Fine del Mondo? di Luciano Ligabue. E’ la cover di un bel pezzo dei R.E.M. che lo Springsteen della Bassa Padana trasforma nel testo facendolo diventare una sarcastica satira della programmazione televisiva italiana. Profetico! Chi non sta incollato al video (ok… ora c’è il tablet, il PC, lo smartphone, etc.) a monitorare l’evolversi del Covid 19? Fino alla fine, come dicono gli juventini in Coppa.

#Trk. 3: Quello che Proteggiamo dei Messer DaVil. Band ligure che ci piace sempre. Filologicamente corretta, rispetto ai tempi che stiamo vivendo. Ci ispira e ci spinge a stare lontani dai guai e anche dalla realtà! Perfetta per la segregazione obbligatoria. E’ il nuovo singolo tratto sempre da La Sindrome di Stoccolma e, se vi va, trovate il videoclip della canzone su YouTube.

#Trk. 4: Hanno Ucciso l’Uomo Ragno degli 883. Cos’è se non la metafora della fine della speranza? <<Nelle strade c’è il panico, ormai…>> E ci sarebbe, se per strada ci fosse qualcuno! Vorrei vedere come sta qualche borioso scienziato di quelli che appaiono in TV a reti unificate (invece di stare in laboratorio o in ospedale, dove i loro colleghi si stanno ammazzando di lavoro) con la calzamaglia blu e rossa.

#Trk. 5: Me Ne Frego di Achille Lauro. Il titolo potremmo dedicarlo a quelli che in barba ai divieti e agli inviti sono partiti alla chetichella per evitare la chiusura totale della Lombardia, tuttavia è l’ossessivo ripetersi nel testo di <<io sono qui>> che ci ha ispirato… Chissà dove cazzo dovevi essere… però se resti qui mettiti comodo e goditi la fine di tutto.

#Trk. 6: Io Voglio Vivere dei Nomadi. Un titolo per chi non si rassegna! Ok… la canzone parla di amore perduto ma l’opportunità era troppo ghiotta. Poi, ragazzi… <<mi sento vittima e carceriere>> è un verso preciso per raccontare come si sente un padre che fa smart working a casa con la figlia adolescente che lo odia e gli rivolge solo occhiate di disprezzo e il piccolino che lo prende a pallonate mentre è in videoconferenza con l’amministratore delegato.

#Trk. 7: La Solitudine di Laura Pausini. Eh sì! Marco se ne è andato col treno al paesello e non ritorna più. Magari fosse così! Tornano di sicuro da ovunque. L’ho scelta perché, oltre al tema del treno, il titolo esprime molto bene il nostro sentire. Noi che entriamo in uffici vuoti perché non possiamo lavorare da casa, noi che dobbiamo stare ad un metro e non sappiamo come fare a salutarci… Soprattutto quelli brevilinei come me! Ormai, io faccio come la Regina Elisabetta II. Tra l’altro, non è tra le prescrizioni dello Stato.

#Trk. 8: Non C’E’ Più Niente Da Fare di Bobby Solo. Intanto perché il cognome dell’artista fa il paio con il sostantivo della precedente traccia, poi perché il titolo è evocativo.

#Trk. 9: Mascherina dei Litfiba. Eh sì, perché conosciamo tutti la mascherina ma è esaurita. Quindi, visto che <<parlarsi in faccia>> è impossibile… Soprattutto perché serve un metro di distanza. Figuriamoci <<prendersi tra le braccia>>!

#Trk. 10: Luna di Gianni Togni. In fondo, ma non per importanza, questa canzone precorreva i tempi. Infatti, chi di noi non <<guarda il mondo da un oblò, si annoia un po’>>. E Gianni! Togliamolo pure quel po’! Ecco, magari puoi salire sul tetto ed urlare. Nessuno potrà mai biasimarti.

Come ho detto è per alleggerire, sperando che queste poche righe vi facciano passare qualche minuto a sorridere o a insultarmi. Per me, vale un’onorificenza, in ogni caso.

di Paolo Pelizza

© 2020 Rock targato Italia

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