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Mentre tutto cadeva - intervista a Giulio Casale. di Roberto Bonfanti

Mentre tutto cadeva - intervista a Giulio Casale. di Roberto Bonfanti

Mentre tutto cadeva - intervista a Giulio Casale.
di Roberto Bonfanti

Giulio Casale è un artista dal carisma raro ma soprattutto un uomo estremamente coerente con sé stesso e con la propria storia, capace di guardare il mondo con uno sguardo che non fa sconti e di raccontare ciò che vede attraverso una poetica tanto dolorosa quanto affascinante. Confrontarsi con lui è sempre un enorme piacere, specie dopo un album come “Inexorable” che fa i conti in modo lucidissimo con il tempo presente.

Con “Inexorable” hai scelto di confrontarti in tutto e per tutto con il tempo presente. Dai tempi degli Estra sembra che il mondo sia cambiato parecchio: il modo in cui si comunica e ci si relaziona con gli altri, il modo in cui ci si informa, e ovviamente anche ciò che ruota attorno alla musica…

Sì, tutto cambia continuamente. Infatti la canzone che chiude “Inexorable” s’intitola “Comunque resto io” proprio pensando al fatto che attorno a noi tutto chiamerebbe a continui adeguamenti e a un continuo conformarsi all’aria che tira. Anche pensando solo al mondo della musica, ciò che è cambiato maggiormente è proprio il fatto che, quando noi abbiamo cominciato, nessuno aveva l’ambizione di andare al numero uno in classifica o di essere il più cliccato o il più visto. Al contrario: tutti volevano fare una piccola rivoluzione estetica e quindi, che la declinassero nel reggae, nell’elettronica o nel power rock, in tutti c’era l’idea di lasciare un segno poetico di novità. Era quella la cosa più importante: essere veramente originali e innovativi. Oggi invece le priorità, per chi comincia a fare musica, sono altre.

Tutto questo mi sembra abbia portato anche a un appiattimento generale verso il politicamente corretto. Per esempio: un pezzo come “Nessuno” oggi sarebbe quasi impossibile da pubblicare…

Sì, infatti il così detto “indie” -che poi quest’anno era tutto a Sanremo- negli ultimi anni ha avuto un’evoluzione precisissima. Oggi sembra che ci sia un’unica possibilità e soprattutto un unico obbiettivo: quello di “funzionare” e di puntare ai grossi numeri. Invece è chiaro che qualunque ricerca estetica in senso ampio non può avere quello come obbiettivo finale. Quella può essere una conseguenza, ma non l’obbiettivo di partenza. Il successo fa piacere, ovviamente, anche se poi è una cosa pericolosa da gestire a livello personale. Anche io nel mio piccolo l’ho sentito, proprio nel periodo fra “Nessuno”, “Miele” e “Vieni”, cosa può significare essere richiesto e inseguito. Per questo mi fa sorridere quando dei ragazzini di diciotto anni mi spiegano che io sono un pirla perché non produco dei prodotti atti a diventare di massa ma mi costringo ogni volta a fare una ricerca. E’ interessante che dei diciottenni mi dicano questa cosa, no? Quasi come per dirmi: “l’hai scelto tu di restare nel ghetto. Te la sei cercata!”

Ricordo che, alla presentazione del disco precedente, avevi chiuso il concerto dicendo: “dite in giro che Estremo è tornato”. Questa volta invece ho l’impressione che non si possa parlare di un ritorno: in fondo Estremo, in questi anni, non è più andato via…

Mi piace questa considerazione. Purtroppo ci sono un sacco di fan degli Estra che non mi seguono più perché non riescono ad accettare che io continui un percorso: vogliono restare nostalgicamente fedeli a “L’uomo coi tagli”, a “Miele” e a “Risveglio”. Ma, come dicevamo prima, comunque resto io. Anche quello che faccio a teatro è molto coerente con quello che scrivo da autore o da cantautore. Tra l’altro in questo disco sono meno che mai cantautore classico: il lavoro che ho fatto con i produttori artistici testimonia proprio la volontà di togliermi dal ruolo di cantautore novecentesco seduto con la chitarra acustica. La ricerca è la stessa di sempre.

Fin dagli esordi degli Estra, quasi in ogni tuo disco c’è almeno un ritratto di donna. C’è stata Giulia, poi Hanabel, Madeleine, Nina… e nell’ultimo album c’è Bice. Tutte queste donne sembrano avere in comune un senso di decadenza o una malinconia di fondo.

Mi sono reso conto anche io di questo. È che, se devo dire una cosa che mi sembra proprio vera, profonda e dolente, mi piace che a dirlo sia una ragazza. Penso che le ragazze abbiano tutto il diritto di dire delle cose definitive, molto più dei maschi che spesso sono più inclini all’inseguimento del potere e quindi più propensi a dichiarazioni che possono essere paracule o tendere a qualcosa. Una donna invece è spietata nel senso bello della parola. Poi c’è una differenza biologica enorme che secondo me porta spesso a una verità più immediata ma anche più profonda. L’immediatezza è una categoria da cui mi tengo sempre molto distante anche nella scrittura, perché l’immediatezza prevede lo slogan e quindi la facilità e la brutalità. Ma, se a dire qualcosa di definitivo è una ragazza, io ci sto molto più attento. Per questo mi rendo conto di avere spesso messo in scena delle donne per dire delle cose molto dolorose, anche se poi non sono mai delle donne sconfitte del tutto ma sempre intrise da una sofferenza esistenziale che già rilancia a una vita vera, compiuta e adempiuta: proprio perché so che le ragazze hanno questa forza.

Credo che questo sia il disco in cui hai usato più volte la parola “amore” o in cui comunque hai girato attorno a quel concetto in tutte le possibili sfumature.

Sì, perché la battaglia è quella di cantare veramente il sentimento. In questi anni tutto è pop e quindi tutti cantano il sentimentalismo come scorciatoia senza mai dare conto del mondo, del tempo e della società. Io nella canzone più pop che abbia mai scritto canto: “salvami da questo tempo che mi ha quasi ucciso”. Questo per dire che per me non si può cantare il sentimento se non si dà conto del luogo e del tempo in cui quel sentimento si inscena. Quanto mai in questo disco ho avuto chiaro questo fatto, e potrei approfondire molto di più la cosa: potrei anche fare un disco solo di canzoni d’amore. Mi sento pronto per farlo, a patto però che non si venga mai meno alla complessità di due persone che vivono la loro storia d’amore nonostante il tempo presente e dentro il tempo presente.

Ho l’impressione che, nelle canzoni di “Inexorable”, spesso abbiano molta importanza i versi conclusivi…

Sì, è un’altra cosa che ho cercato di fare: lavorare all’interno della forma canzone, inserire pochi ritornelli, cercare delle strutture il più possibile originali e creare sempre un’intro e un’outro. Spesso la canzone è come un cortometraggio con un epilogo.

Fra gli epiloghi, mi ha incuriosito quello di “Un giorno storico”: “e neanche questa volta Alice capirà”. Sa di disillusione, no? Un po’ come dire: “io il messaggio l’ho lanciato, ma tanto so già che non verrà recepito”.

Può essere così. Tanto più che parliamo di un singolo che doveva essere proprio il brano di lancio del disco con un video e tutto quanto il resto. Eppure è una canzone particolare, brevissima, in cui il cantato dura un minuto e quaranta secondi. È un brano in cui cito una quantità di cose che succedono ogni giorno ma, mentre tutti corrono per essere i migliori, i più in vista o i più cliccati, il protagonista della canzone ha vinto il premio per la persona meno rilevante in assoluto. Ma, appunto, “neanche questa volta Alice capirà”: non capirà quanta bellezza c’è nell’orgoglio di essere il meno visto e in questo modo sottrarsi alla volgarità di questi anni. Qui si potrebbe veramente aprire un piccolo saggio, per quanto mi riguarda, ma preferisco lasciare a chi ascolta il compito di trarre le proprie conclusioni.

Oltretutto il richiamo a De Gregori è una delle tante citazioni presenti nel disco. In “Bice”, per esempio, cito i Joy Division. Nel disco precedente citavo Battiato. Credo che il mondo della canzone abbia ormai una sua classicità, per cui è bello, pur senza mai citarli nella composizione e senza mai plagiare nessuno, ogni tanto lanciare degli echi della tradizione. Soprattutto in un disco che invece a livello di composizione non deve niente a nessuno, credo. Credo sia un disco molto coraggioso.

Assolutamente sì. Oltretutto è particolare anche il modo in cui è uscito: sei partito un paio di anni fa pubblicando una canzone al mese, poi l’EP che conteneva praticamente mezzo disco e alla fine l’album intero…

Quella in realtà non era una cosa studiata a tavolino fin dall’inizio. Il percorso ha preso forma strada facendo. Dopotutto Fossati diceva: “chi si guarda nel cuore sa bene quello che vuole e prende quello che c’è”. Ma credo che nel 2019 questo valga un po’ per tutti.

Però forse il fatto che il disco si sia spalmato su un tempo così lungo ha fatto sì che ci abbiano collaborato diverse persone: prima i Norman, poi Alessandro Grazian e Lorenzo Tomio… quanto hanno influito tutte queste collaborazioni?

Tanto. Le cose belle non le fai mai da solo: c’è sempre bisogno di confronti. Io sono molto felice perché chiunque ha messo le mani sulle canzoni le ha rispettate tantissimo, però gli apporti sono stati tutti decisivi. Tutte le soluzioni che si sentono nel disco sono state trovate solo in studio dopo giorni e giorni di prove. Per questo sono molto gratificato dal fatto di non essere solo e non sentirmi solo. Questo non è il disco di un cantautore che mette due microfoni e suona le sue canzoni: è un album fatto di tanti apporti.

A proposito di percorsi particolari: “Le nostre piccole e medie imprese” è una canzone che portavi nei concerti già da un po’ di tempo e finalmente l’hai pubblicata...

Sì, ma solo sul vinile perché comunque fa parte di sessioni molto antecedenti alle altre. Per me è importante che il blocco d’ispirazione venga rispettato, per questo sul cd non ci stava: ha un suono molto diverso dagli altri brani, avendola registrata due anni prima. Però resta il fatto che quella è una delle canzoni a cui sono più affezionato in assoluto perché mi sembra che tratteggi molto bene il misunderstanding che stiamo vivendo a livello culturale: siamo tutti immersi in macro argomenti e nessuno dà conto della nostra personale individuale fatica quotidiana nell’essere imprenditori di noi stessi. Cioè nel portare a termine la giornata. Dunque le nostre piccole e medie imprese sono i nostri gesti quotidiani e la nostra nobiltà nell’essere persone dall’alba fino all’alba seguente e poi ancora e ancora. Per esempio nel primo verso canto “avendo mantenuto fede alla propria infanzia”, cioè ai propri sogni d’infanzia, quindi rimanendo non stupidamente coerente ma fedele alla propria natura e alla propria inclinazione. Questa è la vera impresa: essere sé stessi in un momento in cui chiunque sembra attratto dall’adeguarsi e allinearsi per farcela.

Chiudiamo con un ricordo: hai vinto Rock Targato Italia con gli Estra 25 anni fa, e all’epoca avevi già pezzi come “Non canto” o “L’uomo coi tagli”. Che rapporto hai oggi con quelle canzoni e che ricordo hai del concorso?

Non canto” è ancora in scaletta in questo tour, e l’ho scritta nel ’93, per cui ci sono cose che sento ancora precisissime. Al di là di questo, io ho una gratitudine immensa nei confronti di Rock Targato Italia perché noi siamo davvero figli di quell’esperienza. Pensa che la sera delle finali c’era in sala un discografico della Warner che era lì per seguire un’altra band, poi vide noi che facevamo “L’uomo coi tagli” e ci mise il biglietto da visita in mando dicendo: “quando volete, il contratto è già fatto”. E così fu, per cui tutto è iniziato lì. Noi avevamo già vinto praticamente tutti i concorsi d’Italia ed era un momento in cui si sentiva un’aria di grande apertura, ma evidentemente dovevamo vincere proprio Rock Targato Italia per arrivare a fare sul serio. Ci sono, nella vita, degli appuntamenti in cui ci devi essere. E per fortuna noi eravamo lì.

Roberto Bonfanti
[scrittore e artista]

www.robertobonfanti.com

Blog www.rocktargatoitalia.eu

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