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4 album per settembre: Charles Muda, Maree, Psicologi e Rota Carnivora.


4 album per settembre: Charles Muda, Maree, Psicologi e Rota Carnivora

articolo di Roberto Bonfanti

C’è stato un periodo, all’inizio della primavera, in cui il nemico pubblico numero uno del mondo civilizzato, stando ai grandi media, erano gli sportivi. I “runner”, come si usava dire in quei giorni, assaliti a suon di indignazione da tastiera, urla dalle finestre e in alcuni casi, sull’onda dell’isteria collettiva, anche fisicamente. Da allora il nemico pubblico numero uno del mondo civilizzato è cambiato quasi ogni settimana: ci sono stati “i milanesi scappati di notte in treno”, i tifosi del Napoli intenti a festeggiare la vittoria della Coppa Italia, qualche personaggio più o meno noto autore di qualche dichiarazione che tutti abbiamo presto dimenticato, diversi virologi o medici, “quelli che fanno l’aperitivo”, uno stravagante personaggio vestito di arancione, un noto tenore, i proprietari delle discoteche, “quelli che vanno al mare” e sicuramente qualche altro che mi sfugge. Poi, arrivati nel pieno dell’estate, è stata la volta de “i giovani”. Dunque, in questo mese di settembre, mi sembra giusto parlare di quattro album firmati da artisti giovani.

Charles Muda è un personaggio che si fatica moltissimo a inquadrare. Arriva, in qualche modo, dall’universo del rap, ma il suo ep d’esordio intitolato “Pop art” è in realtà un frullatore variopinto di pop, trap, punk, rock, slanci di rinogaetanismo, ritmiche ossessive, slogan, confessioni, riflessioni, citazioni e ironia. Un concentrato imprevedibile, fresco e decisamente personale. Forse una delle cose più punk ascoltate negli ultimi tempi, a dispetto delle definizioni di genere.

I toscani Maree ci fanno respirare un pizzico di sana nostalgia degli anni ’90. Il loro “Versilia” è infatti un lavoro in cui melodie pulite e lineari sposano in modo intrigante il suono delle chitarre ed esplodono spesso in ritornelli corali. Canzoni riflessive che si lasciano bagnare da una piacevole dose di malinconia senza però mai incrinare l’equilibrio fra immediatezza ed energia.

Gli Psicologi, pur con tutte le differenze di genere e generazione, sembrano voler rappresentare per i ventenni di oggi ciò che Vasco Brondi è stato per i loro coetanei di dieci anni fa. “Millennium bug”, prima prova sulla lunga distanza del duo, riesce bene nel tentativo di coniugare trap e aperture rock, ma soprattutto si presenta come un diario sincero e fragile di due ragazzi nati all’alba del nuovo millennio.

Sono decisamente lo-fi, i territori in cui si muove Rota Carnivora. Le sei tracce di “Xatànax II” appaiono infatti come un continuo gioco di luci e ombre in cui le parole dell’artista piemontese galleggiano su melodie volutamente indolenti che giocano a nascondino fra arrangiamenti a bassa fedeltà fatti di batteria elettronica ed effetti creando paesaggi stranianti e intriganti.

p.s.: prima che finissi di scrivere l’articolo, i giovani avevano già passato il testimone di nemico pubblico numero uno del mondo civilizzato a un settantenne imprenditore miliardario. In questo mondo orwelliano, un quarto d’ora d’indignazione generale non si nega a nessuno.

Roberto Bonfanti
[scrittore e artista]

www.robertobonfanti.com

 

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CINQUANTA ANNI FA TRA CINQUANT’ANNI...

CINQUANTA ANNI FA TRA CINQUANT’ANNI,

OVVERO COME LA STORIA HA QUALCHE VOLTA IL SENSO DELL’UMORISMO.

Era il lontano 1970. Magari, non così lontano come possiamo immaginare. L’anno precedente finisce lasciando una fastidiosa coda di un’epidemia di influenza che alletterà tredici milioni di persone e ne ucciderà cinquemila circa. Ovviamente, arrivava dalla Cina. Un anniversario perfetto! Chi ha detto che la Storia non ha il senso dell’umorismo quando si impegna?

Sembra però che, allora, le psicosi non fossero concentrate su virus influenzali asiatici ma su altro. Alla fine del decennio precedente, era caduto il sipario sulla presunta innocenza dell’America, fino ad allora paladina disinteressata del “mondo libero”. La guerra in Vietnam la stavano perdendo (soprattutto) in casa e i movimenti (quelli giovanili in particolare) passavano da una colorata, a volte scanzonata, protesta a pretendere pace ed equità sociale con maggiore veemenza. Quindi, le piazze della protesta diventano quelle della violenza. Alcuni tra quelli più “incattiviti” si inabissano in clandestinità costituendo il flashpoint per le organizzazioni terroristiche che tanti lutti hanno provocato nell’Europa Occidentale. Non fu più tempo nemmeno per i grandi raduni musicali; quegli happening che sono stati consegnati al mito: Monterey, Ashbury Heights e Woodstock non avranno seguito.

A intristirci ulteriormente, è il fatto che quello fu l’ultimo anno con The Beatles anche se uscirà un LP dal titolo Let It Be e l‘ultimo singolo (solo in USA): The Long and Winding Road (la lunga strada tortuosa). La title track del disco uscirà sempre quest’anno e vedrà la prima e unica collaborazione di Linda McCartney con i Fab Four (nei cori). La canzone, scritta da Paul, racconta di un sogno in cui gli appare la madre (Mary), scomparsa per cancro quando lui era adolescente, che raccomanderà al figlio di prendere la vita come viene. Un invito che non è sbagliato accettare di questi tempi.

Il 1970 è anche un anno fecondo di produzioni musicali di pregio. Escono 4000 album ed oltre 5000 singoli. Questo pezzo è dedicato a tre album (di solito io li chiamo “Tre Pietre Miliari” nei miei “pezzi” dedicati) usciti in quell’anno così ricco dal punto di vista della produzione musicale. Ho scelto questi perché potrebbero essere stati realizzati nel 2070, tra altri cinquanta anni, e risultare comunque moderni. Insomma, sono dischi che non sono invecchiati e che raccontano non solo di un mercato (quello della musica, ma potremmo dire di tutto il comparto della cultura) florido, ricco di temi e di esperimenti ma, anche, di una grande fascinazione popolare per tutto quello che era musica, letteratura, cinema, teatro e musica … grande fermento e attenzione per i mezzi espressivi.

Primo, per un mio personalissimo affetto, un triplo album: All Things Must Pass di George Harrison. Una mole di materiale impressionante. L’album è sicuramente frutto di una vena compositiva che, nei Fab Four, era stata un po’ “soffocata”. E’ il suo terzo lavoro da solista ma il primo ad ottenere un grande successo di pubblico e, soprattutto, di critica. Quest’ultima aveva a lungo sottovalutato il talento di George a favore dei più “visibili” Paul e John (anche tutti gli altri Beatles escono nello stesso anno con lavori propri compreso Ringo). La leggenda narra che Harrison chiamò il produttore Phil Spector e lo fece andare da lui. Spector la raccontò così: “Andai da George a Friar Park e lui mi disse di avere qualcosa da farmi ascoltare. Non finiva più… Aveva centinaia di canzoni ed erano una meglio dell’altra.” L’album è pregno di contaminazioni americane, maturate anche per la sua collaborazione con Bob Dylan ma, direi, soprattutto per il “viaggio” compiuto negli USA, come testimoniano alcune esecuzioni effettuate con tecniche chitarristiche storicamente blues e contry/folk. Anche i temi trattati sono spesso quelli di una spiritualità alla moda del gospel di cui la canzone My Sweet Lord è testimonianza preziosissima, oltre che esserlo della sua svolta mistica orientale (infatti il coro canta un’invocazione vedica). Ogni pezzo là contenuto è pieno di originalità e poesia e i temi sono vari: alcuni legati alla fede nella spiritualità orientale abbracciata dal musicista, altri a relazioni umane che si stavano deteriorando (quella con Paul e John e con la moglie Patty Boyd), altri ancora all’inevitabilità della morte. L’esercizio avviene dentro ad un pop rock raffinato ed efficace che incorpora molti dei generi della musica popular USA, oltre a quelli già citati.

Il secondo album, l’ho citato mentre ero preso da una acutissima crisi di noia virale che dovevo sedare. Si tratta del monumentale John Barleycorn Must Die dei Traffic. E’ il quarto album della band che viene realizzato dopo la prima reunion. Il gruppo inglese ottiene molto più successo in USA che in Gran Bretagna. Questo fu probabilmente determinato da un pubblico che era meno avvezzo alla sperimentazione musicale rispetto ai sudditi di Sua Maestà e che visse il disco come molto originale. Ancora adesso l’album è stupefacente anche solo al primo ascolto, oltre ad essere un medicinale efficacissimo contro le stupidaggini dell’attuale situazione. Il titolo fa riferimento ad un personaggio del folclore anglosassone (Barleycorn è la personificazione inglese di birra e whisky) ma si può riferire anche al romanzo autobiografico di Jack London pubblicato nel 1913. London parla delle allucinazioni banali e senza costrutto di ubriachi senza immaginazione (tutt’al più vedranno elefanti rosa e topi blu) ma testimonia anche (da scrittore) la spinta a superare limiti sociali e di coscienza nel momento in cui l’alcol diventa innesco per “creare” mondi, per esplorare abissi. Veniamo al disco: eccezionale la ricchezza di suoni tra cui chitarra barocca, flauto, pianoforte e sassofoni. Mancano gli strumenti con i quali a questi Midlanders piaceva sperimentare, come mellotron e clavicembalo elettrico. Il disco sfugge, per lo più, a definizioni chiarificatrici. E’ un album progressive? Lo è certamente ma è ancora vagamente legato alla psichedelia del decennio precedente e, comunque, i Traffic mescolano sapientemente generi oltre che suoni trovando efficaci escursioni nel soul e nel jazz, dove ogni passaggio è una grande e gradevole sorpresa. In controtendenza con i critici, io non eleggo a miglior brano la bellissima Empty Pages bensì Stranger to Himself.

Ultimo ma solo in ordine di apparizione, Moondance di Van Morrison. Il cantautore di Belstaff è alla terza fatica in studio e al secondo capolavoro dopo Astral Weeks (di cui vi parlerò prima o poi perché merita). Esce il 28 febbraio negli USA, dopo che il nostro si è trasferito a vivere in California. Lontano anni luce dalle atmosfere malinconiche di Astral Weeks e da quel flusso di coscienza, Moondance è un album pieno di colore, intriso di musica black, solare e ottimista. La title track uscirà come singolo solo sette anni dopo e mai negli Stati Uniti. La side A di questo album venne definita dalla rivista Rolling Stone come la migliore di sempre. L’album è tutto bello ma io adoro l’esplosione R&B di Caravan, omaggio alla leggerezza del vivere privo di vincoli della cultura gypsy, da riscoprire vista la ormai manifesta fragilità di una civiltà sempre più egoista ed avviluppata in un buco nero esistenziale e completamente priva di sensibilità e di strumenti culturali per dirimere la questione.

Intanto che sprofondiamo nel gorgo di paura e incertezza, pieni di boriosa presunzione ma profondamente ignoranti del vivere, possiamo abbracciare questi tre straordinari capolavori come si fa con un relitto galleggiante salvifico durante un naufragio e pensare che questi artisti erano uomini come noi, rimboccarci le maniche, stabilire le priorità, e (dopo!) recuperare la speranza.

di Paolo Pelizza

© 2020 Rock targato Italia

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HOTEL MONROE "Corpi Fragili Tour", fa tappa al MEI

 info da ROCK TARGATO ITALIA 

 

HOTEL MONROE

Corpi Fragili Tour

Sabato 5 ottobre, ore 17.30

MEI - Meeting delle Etichette Indipendenti

Palco Corona – Piazza Martiri Della Libertà – Faenza (RA)

Gli Hotel Monroe saranno sul palco del MEI in qualità di ambasciatori e testimonial di Rock Targato Italia. Per l’occasione, a partire da domani, sarà pubblicato sul canale YouTube della band un live-video del brano L'Ultima Cosa Che” registrato al Cambusa Wave durante le finali regionali Emilia Romagna della 31/a edizione di Rock Targato Italia: https://www.youtube.com/c/HotelMonroe

 

Un nuovo importante appuntamento si aggiunge al “Corpi Fragili Tour”, la tournèe che vede impegnata la band parmigiana degli Hotel Monroe nei migliori rockclub e festival nostrani per presentare i brani che compongono l’ultimo album “Corpi Fragili”. Il disco, prodotto da Roberto Drovandi (Stadio), è stato pubblicato il 12 aprile scorso per l’etichetta Twins104.

 

Ascolta l’album “Corpi Fragili”: https://backl.ink/1775316

 

NEL WEB: 

 

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 FRANCESCO CAPRINI – FRANCO SAININI 

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