di Massimiliano Morelli
- Il primo dicembre appena passato, sette mesi e mezzo dopo la mia peculiare recensione di The New Abnormal, i The Strokes presentano in anteprima su YouTube –regia di Roman Coppola, niente meno– il video di The Adults Are Talking— l’opener del disco, rivelatrice e rilevante quanto il disco stesso, sia detto; sette mesi dopo, dicevamo, ritorno a Rock Targato Italia e riprendo, autoreferenziale e monotematico come convenientemente mi si addice, dagli ora adulti di New York (perdonami, Maestro Pelizza!) per un inciso non così sicuramente prevedibile ma di sicuro non trascurabile: Music Industry-wise, per dirla all’americana, questo bisesto, funesto, nefasto, e nondimeno infausto AD MMXX ha tanto tolto all’industria quanto dato alla musica. Entrare nel merito di cosa o chi abbia recato un così grave danno all’indotto e alla salute, tra le altre cose, del business tutto è comprensibilmente fuori dallo spettro delle mie competenze e della mia volontà –e che Dio mi preservi dal farlo!–, ma da appassionato e pagante, ché i dischi che amo li compro, non posso far meglio del levarmi il poetico cappello e, piuma in mano, vergare una lode all’estro, all’ispirazione, e alla capacità di quegli artisti che nel corso di questa cattività ai confini della realtà hanno saputo (ri)consegnare alla loro arte –e, tramite la stessa, riconsegnare a noi– ciò che la pandemia ha sottratto. O mio Dio quanta ridondanza!— potete sempre contare su un egomaniaco passionale per l’esagerazione stilistica di cui avete bisogno, garantito. Ka, al Secolo Kaasim Rayan, rilascia il primo maggio Descendants Of Cain— il suo sesto album volendo includere Orpheus VS The Sirens (2018), fatto uscire sotto l’ermetico moniker Hermit And The Recluse; è difficile, se non addirittura non necessario, stabilire quanto l’anno d’uscita abbia influenzato l’uscita stessa, ma è di fatto estremamente semplice ringraziare il rapper e produttore di Brownsville (Brooklyn, New York; giusto per non spostarci altrove, per ora) per un capolavoro che, pur intriso di vita e di morte –vere, vissute, vive– di strada e di interrelazioni umane consumate fino a e dalle più estreme intimità, ben si presta ad accompagnare la solitudine, la segregazione, la contemplazione poetica, la preghiera, e il silenzio che, se non altro, il 2020 ci ha fatto riscoprire come necessari. Spostandoci ora in Canada e viaggiando leggermente indietro nei mesi, il 21 febbraio Grimes pubblica a suon di tweet –dichiarazioni (e) smentite– Miss Anthropocene, il suo quinto LP; possibilmente pronto già dal 2018 e costantemente rimandato, l’idiosincratico quasi-concept album dell’artista nata Claire Elise Boucher suona come una raccolta d’oscure profezie dreampop di molte delle possibili sventure prossime venture, ogni singola traccia permeata da una sorta di assenza di gravità che, lungo il corso d’un’emergenza sanitaria e sociale di tali proporzioni, diventa una credibilissma, spesso ispiratissima, metafora musicale –comunque non del tutto scevra di speranza– dell’attuale e mondiale mancanza di qualsivoglia certezza e/o riferimento. Il prossimo balzo spaziotemporale ci riporta a maggio –il 15, per la precisione– ma dall’altra parte dell’Atlantico— Cambridge, Inghilterra: Charlotte Emma Aitchison, in arte Charli XCX, presenta al pubblico how i’m feeling now (tutto minuscolo), il suo quarto album, nato durante –e ispirato da– il lockdown, e siamo dunque e di diritto più che mai dentro il 2020; concepito e fatto (letteralmente) in casa più o meno tra i primi di aprile e l’inizio del mese successivo, in netto contrasto con i discendenti di Caino di cui sopra, il disco vanta una collezione di inni electropop domestici e contemporanei –internet e social media inclusi– in grado di trasformare la casa dell’ascoltatore recluso talora in un dancefloor londinese al culmine del rituale pagano, talaltra, nei momenti più introspettivi e delicati, nella camera pregna d’anticipazione e velleità d’un/a ragazzo/a di oggi alle prese con tutte le promesse non mantenute, gli amori non consumati, le infedeltà, e le distanze del caso. E non a caso, aggiungerei. Volendo restare in Gran Bretagna, ci spostiamo ora nei meandri più remoti e sconosciuti del Galles, facendo un altro salto all’indietro lungo il calendario: il 20 gennaio, quando lo spettro del Covid-19 era ancora verosimilmente confinato nelle estremità del mondo, esce lo spettrale ed estremo Youth In Ribbons di Revenant Marquis, one-man band evidentemente underground che i meglio informati definiscono raw black metal e il cui spettro sonoro (scusate ancora!) sembra quasi il non intenzionale grafico dei suoni e dei rumori degli incubi, delle paure, delle insonnie, delle schizofrenie, delle convulsioni che confinamento e distanza –più che distanziamento– sociale stanno generando da mesi; un capolavoro assoluto, se me lo si domanda. Riemergendo dal sottosuolo/sottoterra del marchese redivivo, ma rimanendo parimenti claustrofobici e malmostosamente metal, ritorniamo negli Stati Uniti (Boston, Massachusetts) e al primo maggio: gli Umbra Vitae –supergruppo over-the-top capitanato dall’eclettico e irrefrenabile Jacob Bannon– debuttano con l’incredibile Shadow Of Life; dieci canzoni tra tecnica chirurgica, passione violenta, e scrittura da capogiro, un solo umbratile, ombroso, e tenebroso tono/colore— quello delle nostre migliori e più profonde (claustro)fobie. Oh, Mastro Bannon, che l’ombra della vita possa uscire alla luce del sole e dal suo attuale stato di progetto e diventare band, (c)attiva e costante! Un mese e due giorni dopo, il 3 giugno, il superduo hip hop americano Run The Jewels (EL-P, rapper e producer, Brooklyn; Killer Mike, rapper, Atlanta) cala il quarto asso consecutivo su quattro con RTJ4; fatto uscire due giorni prima della data ufficiale in segno di vicinanza alle proteste contro violenza e odio razziale in corso e, com’è d’uopo, imbellito da featuring e collaborazioni d’eccellenza, il disco è un trionfo di scrittura e di produzione e, traccia dopo traccia –barra dopo barra– aiuta davvero sapere che nonostante la stasi globale e globalizzata il Tempo può invece avere un Ritmo, il Ritmo un Flow, il Flow dei Contenuti, e che (il) tutto possa evolversi e cambiare— bomba! Ora il dovere –morale, intellettuale– ci riporta in Europa e dalla primavera ci trasporta all’autunno inoltrato per dire grazie a Francesco Bianconi (Milano, Italia) per aver concepito, scritto, e pubblicato Forever (16 ottobre) e per aver colto e sfruttato da vero artista la non scontata e favorevole occasione d’esser prodotto da Amedeo Pace dei Blonde Redhead— c’è tutto: parole, voce, musica, suono, e, nondimeno, Canzone d’Autore. Ci rispostiamo dunque negli States per rimanerci ma, prima del penultimo passaggio –il Penultimo Atto–, faremo una brevissima tappa sonica al di là delle ormai consolidate coordinate spaziotemporali: se, come me, amate il male, la magia nera coniugata ai tempi del 4G (o forse già 5?), e tutta l’angoscia e il risentimento suburbani e metropolitani possibili in musica, allora fate un giro su Spotify e ascoltate l’omonimo EP dei Baader-Meinhof— tre pezzi, nemmeno quindici minuti, incubi che dureranno ore. Se poi vorrete approfondire, digiterete su Google Ghostemane . . . Hollywood, Los Angeles; 11 settembre (!): non avrei davvero voluto scomodare nomi troppo più grandi di e per questo mio artritico e oltremodo articolato articolo (amo la cacofonia, tra le altre cose, l’avrete capito) ma la caratura del lavoro è tale che la necessità, soprattutto quest’anno, deve necessariamente (ri)farsi virtù, e WE ARE CHAOS (tutto maiuscolo) di Marylin Manson va a consolidare e rilanciare gloriosamente la posizione, sia in termini di successo che di prestigio, dell’artista all’interno d’un mercato –quello discografico, si capisce– che già ante-Covid-19 si dimostrava sempre meno incline (ai più esperti e preparati di me l’onere e l’onore di analizzarne i come, quando, e perché) ad accogliere le esigenze e le proposte di big over e mostri sacri vari ed eventuali. Eventualmente, il Nostro-al-Secolo Brian Hugh Warner si riprenderà la fetta di torta che gli spetta con un disco spettacolare, e così sia. Sarebbe infine giunto il momento di chiudere il cerchio e di ritornare a New York viaggiando nuovamente a ritroso nel tempo fino al 10 aprile per dire quindi come i The Strokes con The New Abnormal (per chi scrive, l’album migliore e più importante di questo ANNO MUSICORUM MMXX) abbiano . . . ma non lo farò, lasciandolo aperto (il cerchio, se già vi siete perduti) e al lettore-ascoltatore, oltre ai dovuti puntini di sospensione, la consapevolezza che per ogni album da me citato ne sono usciti almeno altri cento e migliori. Che Musica, il 2020, Maestro!
Milano, 08 12 2020
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