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Vittorini e Pavese: la Resistenza come specchio per le proprie paure

L’Italia uscita dalla Seconda guerra mondiale era un Paese allo stremo, in ginocchio dal punto di vista economico e profondamente spaccato sul piano sociale. Tuttavia, gli anni immediatamente successivi alla conclusione del conflitto si caratterizzarono per un fervore culturale e un impegno sociale senza precedenti. Il bisogno di comunicare direttamente la propria esperienza, il desiderio di abbracciare quei nuovi orizzonti culturali dai quali l’Italia si era volutamente allontanata durante il ventennio, la volontà di riabilitare la produzione artistica italiana che ormai da anni – seppur con le dovute eccezioni – diffidava dall’impegno sociale incappando in una rassicurante autoreferenzialità tutta interna alla borghesia: sono questi gli elementi alla base della nascita di quella corrente artistica che prese il nome di neorealismo.
Con il termine neorealismo indichiamo qui un contesto culturale e storico – della durata di circa dieci anni, dal 1945 al 1955 – i cui esponenti erano accomunati dalla volontà di stravolgere non solo il panorama artistico ma anche la società italiana stessa, rendendo protagoniste quelle classi subalterne fino ad allora escluse dalle rappresentazioni o relegate al ruolo di comparse. Tuttavia, l’etichetta di neorealismo – come tutte le etichette d’altronde – va intesa per ciò che è: una convenzione. Enormi sono infatti le differenze tra il neorealismo cinematografico e quello letterario: nel primo caso si può infatti parlare di vera e propria corrente artistica con i suoi codici e i suoi linguaggi; nel secondo, invece, si tratta più che altro di un clima culturale che ha permeato la produzione letteraria di quegli anni. Il risultato di questo clima fu una produzione incentrata attorno ad alcuni temi nodali quali: la presenza di un eroe, spesso di origini popolari e pronto a sacrificarsi per il beneficio della lotta comune; la schematica contrapposizione tra buoni e cattivi – quest’ultima, probabilmente, dovuta a una pedissequa ripresa dello stile e del tono dei racconti pubblicati sui giornali clandestini durante il conflitto, che per ovvi motivi svolgevano principalmente una funzione propagandistica –; l’utilizzo di un linguaggio basso con frequenti concessioni al turpiloquio, in grado di rappresentare fedelmente quello in uso negli ambienti popolari rappresentati.
Figlie di questo clima culturale, ma che al suo interno si pongono con modalità del tutto originali, sono due opere pubblicate rispettivamente nel 1945 e nel 1948: Uomini e no di Elio Vittorini e La casa in collina di Cesare Pavese. La lotta partigiana, tema tipicamente neorealista, è il motore di entrambi i romanzi. Tuttavia, i due protagonisti, lungi dall’incarnare quella figura di eroe partigiano delineata in precedenza, sono in realtà alter ego dei loro autori, che a essi affidano le proprie riflessioni più intime.
Le due vicende si svolgono quasi in contemporanea, tra il 1943 e il 1944, e vedono come protagonisti due intellettuali: il partigiano Enne 2, a capo di un Gap a Milano, e Corrado, professore in una scuola di Torino.
Partiamo con Uomini e no, scritto a conflitto ancora in corso e pubblicato subito dopo la Liberazione. Già la struttura del romanzo – con la sua suddivisione in capitoli scritti in tondo, che narrano le vicende del protagonista, e capitoli scritti in corsivo, nei quali si miscelano perfettamente atmosfere oniriche con i pensieri e le riflessioni di Enne 2 – si caratterizza per una complessità perfettamente in linea con lo stile dell’autore, che quindi non si allinea a quell’immediatezza comunicativa tanto ricercata dagli scrittori neorealisti. Come dicevamo, Enne 2 diventa il tramite attraverso il quale Vittorini espone le sue riflessioni sulla condizione umana; e proprio l’ampia portata di queste sue considerazioni fa sì che la lotta partigiana rimanga solo il pretesto, il contesto nel quale esse prendono forma ma dal quale poi esulano per rendersi applicabili all’intera storia dell’umanità. Contrariamente a quanto il titolo potrebbe far pensare, nel romanzo non è presente una rigida contrapposizione tra uomini e non uomini, tutt’altro: Vittorini si interroga su quanto disumano possa essere l’uomo e su quanto spesso umanità e disumanità riescano a convivere anche all’interno della stessa persona.
«Appena vi sia l’offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo. Sangue? Ecco l’uomo. Lagrime? Ecco l’uomo. E chi ha offeso che cos’è? Mai pensiamo che anche lui sia l’uomo. Che cosa può essere d’altro? Davvero il lupo? Diciamo oggi: è il fascismo. Anzi: il nazifascismo. Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell’uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare?»
Così anche l’epilogo della vicenda, con il sacrificio di Enne 2 – ormai individuato dai fascisti che, con a capo Cane Nero, si stanno dirigendo al suo appartamento –, e che a primo impatto sembrerebbe rientrare nei clichés del romanzo neorealista, è in realtà l’inevitabile conclusione della stanchezza di vivere del protagonista: la possibilità di uccidere Cane Nero come ultimo gesto eroico, nonostante fosse sempre stata lì presente, si palesa agli occhi di Enne 2 solamente in seguito all’indicazione dell’operaio andato a fargli visita. Il sacrificio finale racchiude così le tre direttive fondamentali della vicenda: la lotta partigiana, la complicata storia d’amore con Berta, ma soprattutto quella volontà di “perdersi” che più volte emerge lungo tutto il romanzo.
«Non c’era che resistere per resistere, o non c’era che perdersi. Non c’era sempre stata sugli uomini la perdizione? I nostri padri erano perduti. Sempre il capo chino, le scarpe rotte. O erano perduti dal principio; o resistevano per resistere, e poi lo stesso si perdevano. Perché ora sarebbe finita? Perché vi sarebbe stata una liberazione? Ora molti resistevano per una liberazione che doveva esserci. Anche lui aveva resistito per questo, ancora per questo resisteva, era sicuro che vi sarebbe stata, ma ecco, proprio per questo, che resistere non era semplice.»
Ancor più atipico è il secondo romanzo che prendiamo qui in considerazione, La casa in collina di Cesare Pavese. Il protagonista è Corrado, professore di chimica in una scuola di Torino, che ogni sera lascia la città per andare a rifugiarsi nelle colline torinesi, al sicuro dai bombardamenti. Qui, fondamentale è il bosco, all’interno del quale il professore passeggia spesso con il cane Belbo, e che – oltre a ricordargli le colline della sua infanzia – gli conferisce un senso di protezione e di sicurezza. Pavese trasfonde in Corrado tutti i suoi timori e le sue paure, cogliendo l’occasione per operare una vera e propria riflessione sul ruolo dell’intellettuale. Inevitabilmente influenzato dal continuo richiamo all’azione degli anni della sua giovinezza – un esempio: Giovanni Gentile, filosofo e ideologo del fascismo, nel 1925 dichiarava guerra all’intellettualismo da “torre d’avorio” invitando gli italiani a “scendere in strada” –, Pavese avvertiva come codardia il suo schierarsi solo a parole, cui non faceva seguito – apparentemente – alcuna azione concreta.
La casa in collina si scopre quasi un romanzo autobiografico se si pensa che, dopo l’8 settembre 1943, Pavese andò a rifugiarsi dalla sorella nel Monferrato, senza prendere parte attiva alla Resistenza. Questo romanzo è il prodotto del conflitto interiore che attraversò lo scrittore in questi anni, un conflitto che spesso vedeva proprio nello stesso Pavese il suo giudice più spietato e crudele; pronto a una feroce autocritica non tanto per ciò che ha fatto o non ha fatto, quanto per ciò che è. Analizzando il romanzo sotto quest’ottica, possiamo notare come anche in questo caso la guerra e la lotta partigiana non siano altro che un pretesto: nel momento in cui un così radicale sentimento di inettitudine si è instillato in una persona, questo tende a emergere davanti a ogni più piccola difficoltà. Così anche il titolo della raccolta nella quale è inserito il romanzo, “Prima che il gallo canti” – ovvio è il riferimento al tradimento di Giuda –, rimanda a un altro tradimento, quello dello stesso Pavese e dell’intellettuale nei confronti della causa in cui crede ma nella quale non riesce a impegnarsi sino in fondo. Lungo tutta la vicenda, narrata da Corrado, ormai al sicuro tra le colline nelle quali è cresciuto, questo sentimento di vergogna emerge a più riprese; soprattutto dopo l’arresto di Cate e degli altri dell’osteria, Corrado si lascia andare a una sofferta riflessione sul perché sia toccato a loro e non a lui.
«Perché la salvezza sia toccata a me non a Gallo, non a Tono, non a Cate, non so. Forse perché devo soffrire dell’altro? Perché sono il più inutile e non merito nulla, nemmeno un castigo? […] sono al punto che esser vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfa e non mi basta.»
I due autori trattati sono oggi riconosciuti tra i più importanti del nostro Novecento; uno dei loro maggiori pregi sta, a mio modo di vedere, nell’aver saputo raccontare la lotta partigiana e la Seconda guerra mondiale con una spiccata attenzione alla realtà e alla rappresentazione fedele delle dinamiche in essa operanti, senza però per questo rinnegare il proprio fondamentale contributo individuale e soggettivo. Infatti in entrambi i romanzi la lotta partigiana è un elemento sì importante, ma secondario, che fa quasi da sfondo alle riflessioni e ai timori più intimi dei due autori.